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Servizio sanitario nazionale, sussidiarietà e terzo settore: quale sanità cattolica

Pubblicato il 13/04/2021 - Aggiornato il 20/06/2024

Pubblichiamo l'intervento del Direttore Generale di Auxologico, Dott. Mario Colombo, in occasione del Corso di Formazione promosso dalla Commissione Episcopale per il Servizio della Carità e la Salute tenutosi il 13 aprile 2021.

1. LA NOSTRA VITA, LA SANITÀ PRIMA E DOPO LA PANDEMIA

La Pandemia Covid ancora in corso costituisce un elemento di rottura tra il passato ed il futuro.

Non solamente nel nostro modo di percepire la vita, nella presa di coscienza della umana incapacità a dominare tutti gli accadimenti del mondo, ma anche nel modo di guardare al lavoro ed alle sue relazioni, ai rapporti familiari e, per il tema qui di interesse, la Pandemia rappresenta un discrimine per la nostra percezione di sanità intesa come sistema organizzato per la tutela della salute.

Semplificando si può dire che prima della Pandemia vi erano delle convinzioni, ben radicate e diffuse, ad esempio:

  • che il nostro Sistema sanitario fosse tra i migliori del mondo, ciò avvalorato anche da classifiche ufficiali ed internazionali;
  • che in Italia vi fosse un Servizio Sanitario Nazionale e non 20 sistemi regionali tra loro molto differenti in termini di operatività ed efficienza;
  • che la Regione Lombardia fosse, indiscutibilmente, al top in termini di organizzazione ed efficacia del sistema salute;
  • che, nonostante gli atavici ritardi ed inefficienze, si era raggiunto un accettabile livello di integrazione tra la rete ospedaliera e il territorio.

Dopo la Pandemia, o meglio pending la Pandemia, tutte queste convinzioni sono profondamente cambiate.

Non mi soffermerò sul tema della posizione in classifica del sistema italiano per difendere un primato forse mai avuto, dal momento  che oggi il Sistema sanitario italiano viene spesso inserito nei primi posti dei ranking internazionali per aspetti negativi, quali il numero dei decessi, il numero insufficiente di terapie intensive, l’inadeguatezza dei tracciamenti, il ritardo nell’andare a regime con la campagna vaccinale.

Né mi dilungherò sulla presunta primazia del Sistema Lombardo.

Da Amministratore di un Ente ospedaliero e di ricerca con molte sedi in Lombardia ho anche la possibilità di confrontarmi  con altre Regioni, Lazio e Piemonte, dove abbiamo strutture ospedaliere ed addirittura con un Paese straniero, la Romania, dove abbiamo un nostro Ospedale cardiologico.

Nella gestione di questa emergenza, in Italia ed in Lombardia, penso che molte cose potevano essere fatte meglio o decise diversamente. Vedo comunque prevalente nei confronti di Regione Lombardia una campagna mediatica orientata più da motivi politici piuttosto che dall'oggettività dei dati epidemiologici e della peculiarità del contesto socio-economico lombardo.

2. RIPARTIRE DAI RAPPORTI TRA LO STATO E LE REGIONI

Dedicherò  invece spazio ad un dubbio che in molti è maturato.

Visti gli accadimenti dell’ultimo anno sorge infatti la domanda sulla esistenza di un Servizio Sanitario Nazionale, inteso come unitario ed in grado di garantire un adeguato ed uniforme livello di servizio in tutto il Paese.

Il dubbio è quello di trovarsi di fronte a 20 differenti Sistemi Sanitari Regionali senza capacità di coordinamento e finalizzazione.

Hanno imbarazzato anche i non addetti ai lavori le variegate prese di posizione di molte Regioni nei rudimentali tentativi di tutelare al meglio il diritto alla salute dei propri cittadini regionali, così come i tentativi del Governo di ristabilire credibilità ad un Sistema unico e nazionale e ridare unitarietà di comportamenti.

L’attuale assetto dei poteri costituzionali lascia alcuni dubbi teorici e moltissimi dubbi e problemi pratici sulle competenze di Stato e Regioni.

La Pandemia ha fatto solamente tracimare un vaso orami colmo di incongruenze e mal funzionamenti nei rapporti tra Stato e Regioni per quanto riguarda la sanità e la tutela della salute.

Il noto costituzionalista Sabino Cassese, nel dialogare con Corriere della Sera, non ha dubbi nel ritenere che quando scoppia una Pandemia i poteri, le responsabilità e il dovere di agire è in capo allo Stato: l’articolo 117 della Costituzione, comma 2, lettera q, elenca espressamente la «profilassi internazionale» tra le materie in cui lo Stato ha competenza esclusiva, senza nemmeno bisogno di confrontarsi con le Regioni.

Oppure all’articolo 120, dove c’è scritto che il Governo può sostituirsi agli enti locali quando c’è «un pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica».

Ma se stiamo su un tema più ampio e di interesse generale come la «tutela della salute», allora ci si addentra in un campo più opaco, quello delle materie concorrenti.

Per queste – dice l’articolo 117 – spetta allo Stato legiferare sui principi fondamentali, e alle Regioni definire le regole: scrivere le leggi fare le delibere che regoleranno nel concreto la sanità. Per esempio, sulla sanità lo Stato decide i livelli essenziali di assistenza che devono ovunque essere garantiti, quanti medici sfornare, e il budget da dare alle Regioni che devono poi gestire le strutture sanitarie, pagare il personale sanitario, pianificare la medicina del territorio.

Compete quindi alle Regioni organizzare l’offerta sanitaria, decidere se e quanto dare prevalenza al territorio, alla prevenzione o alla rete ospedaliera. Spetta alle Regioni fissare i criteri di accreditamento e regolamentare il contributo dei soggetti privati. Spetta alle Regioni interpretare ed applicare il principio di sussidiarietà che sul territorio nazionale ha sfumature molto diverse tra Regione e Regione.

Quando si è in situazioni di emergenza e di crisi, ancor più quando la strada da percorrere per uscirne è impervia ed incerta, tutti invocano una regia unica, un uomo forte, che a seconda dei periodi storici assume connotati differenti: il professore universitario, il grande tecnocrate, il manager di successo, il filosofo, il magnate miliardario, il militare ……. .

Ci si dimentica però dell’origine dei problemi che, per quanto riguarda la sanità e la tutela della salute, non è prioritariamente di qualità del materiale umano (se fosse in ogni caso migliore sarebbe meglio) ma dell’assetto giuridico ed istituzionale che oggi rende veramente difficile capire chi deve fare e che cosa deve o può fare.

Riforme costituzionali discusse tra politici che forse non hanno mai sostenuto un esame di diritto, progetti di riforma costituzionale iniziati e non conclusi, mancanza di una visione complessiva delle Istituzioni e rincorsa delle esigenze politiche del momento sono all’origine della situazione attuale. Da qui occorre ripartire per trovare una soluzione.

Ci potrebbero essere due alternative: o Governo e Regioni collaborano lealmente all’interno di uno strumento che è la Conferenza Stato-Regioni (difficile quando il parere alla Conferenza viene chiesto con un preavviso di qualche ora oppure quando vi è una situazione di impasse politico all’interno della Conferenza) ovvero bisogna rileggere criticamente gli ultimi 10 anni, le riforme adottate, i referendum attuati e quelli bocciati per riscrivere alcuni passaggi dei rapporti fondamentali delle nostre istituzioni … magari con l’aiuto di qualche saggio costituzionalista.

3. LA SFIDA DEL TERRITORIO ED IL MIRAGGIO DEL RECOVERY PLAN

Come anticipavo, con la Pandemia, sono pure venute meno anche le poche certezze sul raggiungimento di una buona integrazione territorio-ospedale.

Se si facesse una analisi retrospettiva dei convegni e dei dibattiti sulla organizzazione del Sistema sanitario italiano negli ultimi 50 anni si troverebbe sempre un capitolo, un intervento dedicato a questo tema: l’integrazione con il territorio, l’importanza del medico di famiglia, la continuità assistenziale, i Distretti, ecc..

Il Covid ci ha messo davanti alla cruda realtà, che per troppo tempo le parole profuse dai politici e dai grandi parlatori di sanità, hanno tentato di addolcire: l’integrazione con il territorio non raggiunge livelli di sufficienza se non i limitati ambiti regionali.

Abbiamo dovuto inventarci soluzioni nuove per fare tamponi e vaccini al domicilio. I sanitari che assistono al domicilio fanno ancora notizia, e questo non è un bene, significa che sono soluzioni ancora troppo extra-ordinarie. Anche con l'attuale Pandemia abbiamo perso un'occasione per ricucire e rimodellare il rapporto con i medici di medicina generale: non mi pare che tiri una bella aria su questo fronte.

Nemmeno penso bastino a risolvere il problema atavico del rapporto territorio-ospedale gli obiettivi contenuti nel progetto di Recovery Found del Governo italiano.

La dichiarazione di principio contenuta nel Piano è importante: “potenziare e riorientare il SSN verso un modello incentrato sui territori e sulle reti di assistenza socio-sanitaria”.

Tra i progetti che sono state individuati vi sono:

  • l'Assistenza domiciliare: la casa come primo luogo di cura;
  • le Case della salute: per la presa in carico;
  • gli Ospedali del territorio: per lo sviluppo delle cure intermedie.

Si parte dalla “cura a domicilio” che dovrebbe interessare 14 milioni di utenti. All’uopo verrebbero creati 575 centri per l’assistenza a domicilio, con apparecchi tecnologici per gli operatori, tecnologie di telemedicina per i pazienti.

Si prosegue con la previsione di 2.575 Case della salute aperte tutto il giorno, dove poter trovare almeno un medico di famiglia ed un infermiere, per la prima presa in carico e per la gestione delle malattie croniche. Da anni presente nel dibattito nazionale la Casa della salute ha avuto vicende alterne … ma mai è stata percepita come un disegno strategico e unitario nazionale da parte delle varie Regioni.

Da ultimo gli Ospedali di comunità, ben 753 nuove strutture rivolte a ridurre i ricoveri nell’ospedale generale, con sostegno infermieristico e di assistenza medica continua. Sono una struttura intermedia tra l’assistenza domiciliare e l’ospedale e non sono una novità.

Ambiti questi, dell'integrazione con il territorio, che rappresentano ancora una sfida, una frontiera, un bisogno reale, dove forse gli interessi profit non sono sufficientemente orientati e dove, forse, le strutture no profit ancorate a valori non solo economici potrebbero orientarsi.

Lo spazio che il territorio offre è al momento amplissimo e potrebbe anche sostenere ed integrarsi a completare le tradizioni attività sanitarie ospedaliere, ambulatoriali e residenziali.

4. LA SANITÀ NO PROFIT, “CATTOLICA”, ED I NUOVI BISOGNI

La Pandemia ha dato un nuovo ed ulteriore scossone al nostro fragile Sistema sanitario, nazionale o regionale che lo si voglia connotare.

Non ci sono cure definitive per un Sistema Sanitario: ritengo che un Sistema sanitario non possa mai definirsi perfetto e concluso dal momento che è in continua tensione rispetto a delle variabili assolute.

Un sistema sanitario deve essere in continua tensione pronto a trovare soluzioni adeguate al crescente e nuovo bisogno di salute.

Il bisogno di salute non è un dato definito ora e per sempre, è in continua evoluzione.

Il progresso delle conoscenze mediche: che porta ad individuare nuove malattie ed i meccanismi di azione di quelle già conosciute, crea nuovi bisogni di salute.

L’evoluzione della tecnologia, diagnostica e curativa, determina un aumento del bisogno di salute.

La cronicizzazione delle malattie, l’invecchiamento della popolazione che supera gli ostacoli prima mortali di determinate malattie, contribuisce all’aumento del bisogno di salute.

L’acculturamento in generale della popolazione, la maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione e del rispetto di stili di vita sani, portano anche essi all’aumento del bisogno di salute.

La circolazione delle informazioni mediche, che con il web e i social media ha avuto un incremento esponenziale, determina un pari aumento di bisogno di salute.

Ma anche l’incremento dell’offerta sanitaria, sia da parte delle strutture pubbliche, sia da parte di quelle private, le forme di accesso alternative al ssn (assicurazioni, fondi di categoria) portano anche essi ad un aumento del bisogno di salute.

Ci troviamo di fronte, da una parte, a bisogni ulteriori, domanda crescente, offerta sanitaria in sviluppo sia per risposta alla domanda sia come espressione della imprenditorialità e, dall’altra parte, a  risorse economiche limitate  sul fronte del finanziamento pubblico e della capacità di spesa privata.

In questo contesto si potrebbe inserire una nuova propositività delle strutture sanitarie no profit, della Chiesa e di ispirazione cattolica. Sono i nuovi bisogni, i bisogni crescenti ed insoddisfatti il campo dove misurarsi prima di tutto.

Tralasciare, abbandonare i servizi, i bisogni, le domande che trovano già adeguata soddisfazione nelle strutture pubbliche o nel privato profit?

No, non sarebbe praticabile: sia perché l’offerta della sanità cattolica molto spesso è indispensabile per il funzionamento del Sistema, sia perché la testimonianza di un valore, l'unicità di una vera relazione con il malato fondata sul riconoscere la comune natura umana, l’origine sacra della nostra vita, ha necessità di essere portata avanti in ogni ambito.

5. TRA PUBBLICO E PRIVATO: LA TERZA VIA DELLA SANITÀ NO PROFIT

Spesso in questo periodo di Pandemia abbiamo udito degli attacchi alla sanità privata, ricomprendendo in questa definizione tutto ciò che non è pubblico.

Sicuramente noi strutture sanitarie no profit, della Chiesa e di ispirazione cattolica, non siamo state in grado di fare sentire a sufficienza la voce del nostro impegno anche durante la Pandemia, sovrastate da campagne mediatiche ostili in ogni caso alla presunta “privatizzazione” del Sistema Sanitario.

Lo posso affermare per conoscenza diretta di tante strutture accumunate negli stessi valori che sono state in prima linea ai vari livelli (ospedali, RSA, centri disabili) ma anche come impegno dell’Istituto che amministro: ancora impegnato con Reparti Covid e che si è fatto promotore di un Centro vaccinale di massa fondato esclusivamente sull’impegno volontario di medici e operatori sanitari.

La Pandemia ha messo in luce l’urgenza di una presa di posizione della sanità no profit, cattolica e di ispirazione cattolica, per andare a connotarsi come terza via all’interno del Servizio Sanitario.

Se proprio dovessimo misurarci all’interno di una obbligata dualità pubblico e privato, la nostra sanità sarebbe sicuramente più vicina al pubblico, del quale condividerebbe l’assenza di scopo lucrativo e la presa in carico del bisogno a prescindere da ogni valutazione di economicità.

Del privato dovremmo mutuare l’efficienza e l’organizzazione finalizzata al migliore utilizzo delle risorse: se non sprechiamo le risorse limitate potremmo curare, diagnosticare, assistere ancora più persone. Fare bene il proprio lavoro, con competenza e professionalità, ha un risvolto etico ulteriore, spesso dimenticato. Un ricercatore che sperpera denaro in ricerche inutili o superate, un medico che insiste nel richiedere esami in quanto non adeguatamente aggiornato o formato; un amministratore che ha conoscenze approssimative della normativa fiscale e civilistica …. determinano un danno immediato ma anche mediato: tolgono risorse alla possibilità di cura e di ricerca.

La natura no profit dovrebbe diventare l’asse portante di una terza via del Sistema Sanitario sul quale innestare la nostra ulteriore peculiarità che ci fa riconoscere nel bisognoso, nel malato, non solo un paziente, ma prima di tutto un uomo, un fratello nel sangue di Gesù Cristo.

E concludo con una provocazione.

Laddove l'economicità sia possibile anche in sanità è corretto/accettabile che i risultati gestionali positivi vadano indirizzati a finalità differenti dalla sanità?

È accettabile, dal punto di vista giuridico, morale o etico che un un soggetto sanitario erogatore pubblico o privato che sia utilizzi il risultato economico positivo dell’attività sanitaria per fare altro rispetto alla cura delle persone… per acquisire partecipazioni azionarie in attività non sanitarie o direttamente correlate, per acquistare un immobile in un bel luogo di villeggiatura, una squadra di calcio, per incentivare i manager alla massimizzazione del profitto?

Il soggetto privato può ben concorrere con pari obblighi e diritti al servizio sanitario definito come pubblico solo se vi è concordanza di valori e di intenti e, noi sanità, no profit e valorialmente ispirata, penso abbiamo un titolo in più per partecipare ad un Servizio Sanitario pubblico.